Say on pay

Uno strumento di controllo degli azionisti e degli stakeholder



FTA Online News, Milano, 04 Nov 2013 - 18:48

Le leggi cosiddette "say on pay" sono uno strumento di controllo degli azionisti e degli stakeholder rilanciato dalla crisi in corso. Letteralmente "Dichiara lo stipendio", il termine "say on pay" si riferisce al tentativo di introdurre maggiori forme di trasparenza sulle retribuzioni di varia natura dei manager di società pubbliche e private. Con la crisi dei mutui subprime e del debito sovrano, l’opinione pubblica ha constato che spesso manager di società al fallimento (a volte salvate all’ultimo momento da interventi pubblici) ottenevano comunque ricchissime retribuzioni. O cambiamenti normativi avviati un po’ in tutto il mondo da allora sono però ancora al centro del dibattito.

Il più grande sindacato dei bancari, la Fiba, ha calcolato che nel 2012 direttori e amministratori delegati delle maggiori manchi e assicurazioni italiane hanno incassato in media retribuzioni pari a circa 42 volte quelle della media contrattuale prevista dai contratti nazionali. Sul tema sono intervenuti in varie riprese l’Unione Europea, la Banca d’Italia, l’IVASS, ma gli scontenti sono ancora palpabili. Solo dopo enormi fatiche è stato trasmesso dal Ministero dell’Economia di Fabrizio Saccomanni al Parlamento lo schema di decreto legge che pone un tetto di 294 mila euro lordi ai compensi degli amministratori con deleghe di Anas, Ferrovie dello Stato e Rai, alle altre 18 società controllate da questo ministero sono stati posti compensi all’80% o al 50% del trattamento del primo presidente della Cassazione che assurge a riferimento per gli stipendi dei manager pubblici.

Il Sole 24 Ore ha calcolato che nel 2012 Sergio Marchionne (Fiat) ha guadagnato 47,9 milioni di euro lordi, seguito dal vicepresidente di Luxottica Luigi Francavilla (28,8 milioni di euro) e dal numero uno di Yoox Federico Marchetti (22,61 milioni di euro). Nel calcolo sono compresi stipendi, bonus, buonuscite e plusvalenze da stock option, ma sono esclusi i benefit non monetari come la casa o l’auto di cui molti approfittano. Il manager pubblico più pagato è stato l’ex amministratore delegato di Saipem Pietro Franco Tali con 6,94 milioni di euro (che ha lasciato l’incarico dopo lo scandalo delle tangenti algerine che ha coinvolto la società). Segue l’a.d. di Eni Paolo Scaroni (6,77 milioni di euro che comprendono però anche il ruolo in Generali).

In realtà in materia di compensi delle norme "say on pay" sono state introdotte da Borsa Italiana per le società quotate già all’inizio del 2010 con l’articolo 7 del codice di Autodisciplina che impone ogni anno la presentazione di una relazione sul governo societario che deve spiegare il metodo con cui sono impostati i piani di retribuzione compresa l’articolazione tra retribuzione fissa, come lo stipendio mensile, e variabile, come il gettone presenza o i piani di stock option. Da questa relazione si apprende molto più di un tempo, tuttavia va evidenziato che ancora la capacità di controllo dei soci sulla retribuzione del management rimane alquanto limitata.

All’estero non va meglio. A Wall Street, la patria della finanza globale, nel 2012 solo il 3% dei piani di retribuzione presentati è stato bocciato. Lo riporta una ricerca di Semler Brossy, una società di consulenza specializzata proprio nei piani di retribuzione. In realtà l’articolo 951 del Dodd-Frank Wall Street Reform and Consumer Protection Act, la legge che voleva cambiare la finanza statunitense, richiede periodici pareri consultivi da parte degli azionisti su compensi per i manager. Si tratta però di un’opinione non vincolante, ossia i compensi proposti per i manager possono essere applicati senza limiti nell’ammontare o senza modifiche indipendentemente da un parere sfavorevole dei soci. Il proprietario della società, ossia l’azionista, è quindi in molti casi impotente di fronte ai maxi stipendi dei manager, anche se i casi eclatanti non sono mancati.

Nel 2012, per esempio, Jamie Dimon, amministratore delegato di JP Morgan, ha guadagnato (secondo The Associated Press) 18,7 milioni di dollari per l’esercizio durante il quale la sua banca aveva perso ben 6 miliardi di dollari per una cattiva puntata su derivati strutturati (la "London Whale"). Una cosa simile era successa in Francia nel 2008 con Société générale: una perdita su derivati da 4,9 miliardi di euro aveva fatto crollare i titoli del colosso francese del 63,47 %, ma il numero uno del gruppo Daniel Bouton era riuscito a rimanere al proprio posto e persino a realizzare 1,3 milioni di euro di plusvalenze in quattro mesi.


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