La crisi dei Mutui Subprime

Gli impatti sul mondo finanziario



FTA Online News, Milano, 19 Ott 2007 - 10:15

Gli operatori finanziari ricorderanno il 2007 come l’anno della crisi dei mutui subprime. Il luglio 2007 è stato infatti scosso dagli effetti che le insolvenze sul mercato dei mutui statunitensi ad alto rischio hanno catapultato sulle borse di tutto il mondo. Fra la fine di luglio e l’inizio di agosto in quattro giorni gli indici delle borse azionarie mondiali hanno raggiunto i minimi degli ultimi tre mesi precedenti e gli indici azionari europei quelli degli ultimi cinque.

La crisi è stata caratterizzata dalle notizie sul fallimento di diversi fondi immobiliari collegati ai mutui ad alto rischio prima negli Stati Uniti e dopo anche in Europa. Gli analisti stanno cominciando a studiare le cause del fenomeno per capire come sia stato possibile che perdite allora stimate in 100, al massimo 150 miliardi di dollari si riflettano in danni molto più ingenti per le borse di tutto il mondo. Alcuni osservatori sospettano che si tratti di un crisi benefica che, dopo il rally dei listini negli ultimi anni, sgonfi le bolle speculative createsi nei mercati finanziari; altri osservatori temono che gli effetti della crisi immobiliare americana impattino su tutto il sistema finanziario.

Di fatto è scoppiata un crisi di fiducia nei mercati. Banche e società finanziarie che operano nel mercato dei mutui subprime e dei fondi immobiliari cominciano a monitorare i propri bilanci e soprattutto iniziano controllare i finanziamenti in corso e ad accantonare riserve per bilanciare possibili perdite legate alle insolvenze sui mutui subprime. Questa maggiore attenzione ai finanziamenti fra le banche e all’impiego dei capitali finisce per far crescere il tasso di sconto interbancario ossia il tasso d’interesse al quale le banche si prestano il denaro vicendevolmente. I timori infatti finiscono per rendere sempre meno facile per gli operatori reperire capitali sul mercato. Un eccessivo costo del denaro per le banche è un rischio per l’intero sistema, in quanto ricade su tutta l’economia e può persino portare al cosiddetto credit crunch, ossia a un forte rallentamento delle operazioni finanziarie globali e a una riduzione degli investimenti in tutte le attività economiche.

Per scongiurare questo rischio in genere le banche centrali prestano denaro a un basso tasso d’interesse alle banche. È la cosiddetta “immissione di liquidità”, ossia di denaro, di cui spesso parlano i giornali. Si tratta spesso di manovre a breve termine ossia di prestiti che vengono restituiti dalle stesse banche anche nel giro di ventiquattro ore. A cavallo del 9 agosto 2007 dunque la Banca centrale europea ha immesso sui mercati liquidità per 94,8 miliardi di euro, la Fed per 19 miliardi di dollari, la Banca centrale del Giappone per mille miliardi di yen (circa 6,25 miliardi di euro) e la Banca centrale australiana ha immesso 4,95 miliardi di dollari australiani (circa 4,19 miliardi di dollari). Questi soldi sono stati restituiti quasi subito, ma sono anche prestati dalle banche centrali a un tasso d’interesse inferiore a quello a cui ormai le banche si prestano il denaro vicendevolmente e permettono così di alleggerire la pressione sul credito e il costo del denaro. Entro certi limiti si tratta anche di operazioni normali che periodicamente le banche centrali compiono, ma questa volta le dimensioni dei prestiti effettuati sono tali da indicare chiaramente una crisi di liquidità del sistema. Basti pensare in proposito che questi interventi delle banche centrali superano quelli attuati per domare la crisi dell’11 settembre. Oltretutto, a indicare ancora di più una situazione d’emergenza concorre un’altra considerazione. Il tasso d’interesse regolato delle banche centrali di cui spesso parlano i giornali indica proprio il costo del denaro e gli effetti di tanti prestiti delle banche centrali a basso costo o di un abbassamento del tasso d’interesse sono identici. Mensilmente le banche centrali stabiliscono ed eventualmente cambiano la propria politica dei tassi (alzando o abbassando il tasso d’interesse), ma nella prima metà dell’agosto 2007 la situazione è tanto critica che le banche centrali non aspettano la successiva riunione e prestano direttamente denaro alle banche.

Ma come si sono generate queste perdite per le banche? La maggior parte dei mutui secondari (o subprime) è stata concessa ai mutuatari statunitensi intorno agli anni 2000, ossia in un periodo in cui i tassi d’interesse della banca centrale americana (la Fed) erano particolarmente bassi. Si trattava dell’epoca in cui Alan Greenspan era alla guida della Fed e nel 2003 si giunse persino a un tasso d’interesse dell’1 per cento. Molti di questi mutui erano a tasso variabile o misto (metà fisso e metà variabile) ossia erano collegati al tasso d’interesse deciso dalla Fed. In altre parole le rate del mutuo crescevano all’aumentare dei tassi d’interesse e diminuivano con il loro decrescere. Con dei tassi bassissimi, addirittura all’1 per cento, la scelta di un mutuo a tasso variabile si tradusse quindi nel tempo in un grossolano errore, in quanto, come prevedibile, i tassi d’interesse in seguito crebbero e con essi le rate del mutuo per il popolo dei subprimer.

Trattandosi proprio di mutuatari subprime, cioè già a rischio di insolvenza, in molti casi la crescita delle rate condusse a diverse insolvenze. In questi casi le banche agiscono pignorando la casa su cui è stato acceso un mutuo e spesso in effetti gli stessi istituti di credito con la rivendita della casa alla fine ci guadagnarono. Il problema venne dopo, quando il mercato immobiliare (fino ad allora cresciuto enormemente) iniziò a dare segni di cedimento.

I prezzi delle case americane negli ultimi anni hanno iniziato a perdere quota e questo per le banche ha significato delle perdite in quanto il valore della casa che eventualmente pignoravano era inferiore alla somma di denaro prestata con il mutuo subprime tempo addietro. In altre parole spuntarono delle perdite anche per le banche e non solo per quelle che operavano con i mutui.

Il percorso usuale di questi mutui non si arrestava infatti alla banca presso cui si accendeva un mutuo, ma andava molto oltre. In genere infatti la banca, per assorbire il rischio e moltiplicare i profitti da commissione, cartolarizzava questi mutui. La cartolarizzazione dei mutui implica il loro raggruppamento in un’unica scatola che poi viene divisa in quote, ossia in molte parti uguali che poi vengono rivendute. Queste nuove scatole di mutui si chiamano Abs (asset backed security, ossia cartolarizzazioni coperte da asset che in questo caso sono appunto le case date in garanzia). Ogni quota quindi rappresenta un pezzo di una scatola piena di mutui garantiti dalle case stesse su cui sono stati accesi i mutui stessi. Le quote a loro volta hanno un rendimento perché oltre al valore della casa forniscono degli interessi che corrispono a una parte degli interessi pagati da chi ha acceso questi mutui. A loro volta questi abs venivano rivenduti a diversi altri operatori. Nel caso di abs con dentro dei mutui suprime il rendimento è maggiore perché i mutuatari pagano più interessi della media. A maggiore rischio, maggiore rendimento.

I vari operatori quindi compravano questi pezzetti di abs e ne incassavano gli interessi. Il gioco però non si fermava qua. Perché a loro volta questi pezzettini di abs finivano in altre scatole (scatole di scatole composte da pezzi di mutui quindi) che sono chiamate Cdo. I cdo (collateralized debt obbligation, ossia titoli di debito emessi a fronte di cartolarizzazioni) sono di fatto dei fondi suddivisi in quote che rendono un certo tasso d’interesse. Questi fondi come visto sono composti di una serie di cose diverse fra cui anche dei mutui subprime (in questo caso). Chi compra una quota di questi cdo incassa appunto gli interessi in gioco, magari senza sapere cosa c’è esattamente dentro la scatola di cui ha comprato un pezzo.

La cosa purtroppo si complicava spesso ancora di più perché magari le quote di un cdo finivano dentro altre scatole e in altri cdo ancora in un gioco di matriosche potenzialmente infinito e via via meno trasparente. Per la loro complessa composizione e origine i cdo sono stati poi soprannominati dalla stampa statunitense titoli “salsiccia”.

Il guaio è che queste salsicce e salsicce di salsicce a un certo punto diventavano tanto complicate e rimescolate che nessuno capiva più cosa c’era dentro. Le stesse agenzie di rating, ossia le società che danno un voto sulla sicurezza di questo genere di investimenti, evidentemente inconsapevoli della reale composizione di questi strumenti, hanno spesso assegnato a questi cdo la tripla A, ossia il più lusinghiero dei giudizi su un titolo di debito.

Quando però le insolvenze si sono moltiplicate e le perdite sono cresciute l’intero castello di carte è crollato e le stesse banche si sono spesso dimostrare incapaci di capire cosa c’era dentro strumenti finanziari che spesso anch’esse avevano acquistato.

Le insolvenze e la contemporanea crisi immobiliare hanno quindi generato delle perdite nelle banche e anche in altre banche che avevano comprato i cdo. Ora una delle caratteristiche degli strumenti derivati come i cdo e i loro derivati è quella di moltiplicare il rischio di chi investe nello strumento in questione: la somma di tanti strumenti ad alto rischio moltiplica infatti i rischi corsi dall’investitore e con essi perdite e guadagni. Per questo motivo le perdite sono pian piano cresciute col crescere della stratificazione di cdo su cdo, di salsiccia su salsiccia. Si è giunti così al fallimento di diversi fondi e a consistenti e a volte insostenibili perdite nel bilancio di intere banche che operavano nel settore. Spesso inoltre le banche si sono sentite costrette a “tirare la cinghia” e questo ha significato, fra l’altro, un minore finanziamento ai fondi di private equity, delle società finanziarie che con la loro politica di conquiste e di rivendita delle società spesso contribuiscono a tenere elevati i prezzi delle stesse società quotate. Alla fine, inevitabilmente, queste perdite dirette e indirette si sono ripercorse sulle borse, con delle perdite sulle piazze finanziarie più importanti del mondo e con degli effetti ancora oggi difficili da quantificare.

Già nel febbraio 2007 Hsbc dichiara la necessità di forti accantonamenti per far fronte a perdite accumulate nel settore dei mutui ad alto rischio. Contemporaneamente la californiana New century financial corporation – terzo operatore statunitense nel settore dei mutui subprime – dichiara di aspettarsi un quarto trimestre 2006 in perdita. A giugno 2007 Bear Stearns, altro importante operatore del settore dei mutui subprime, dichiara per due dei propri hedge fund perdite a doppia cifra. La crisi rapidamente si allarga attraverso le maglie dell’economia globale e coinvolge anche il Vecchio Continente: la banca tedesca IKB entra in crisi proprio per le esposizioni nel settore del subprime (per evitare il fallimento dell’istituto si rende necessario un intervento esterno concertato dalla Bundesbank) e la francese Bnp Paribas congela improvvisamente tre fondi del valore complessivo di 2,2 miliardi di dollari. Nel frattempo la borsa subisce pesanti contraccolpi ed entra in una crisi che ancora a ottobre 2007, nonostante il recupero parziale dei listini, è messa a repentaglio dal pericolo di un recessione dell’economia statunitense che potrebbe partire proprio dal mercato immobiliare.


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