Investitori e “giapponesizzazione” dell’Europa

img-12

A settembre, il rallentamento della crescita e il calo della produzione nell’Eurozona hanno convinto la Banca Centrale Europea (BCE) che fosse giunto il momento di introdurre nuove misure di “stimolo”. Le autorità hanno tagliato di 10 punti base al -0,5% il tasso “pagato” dall’istituto di Francoforte alle banche sulla maggior parte delle riserve in eccesso depositate presso la BCE, sperando che tale mossa spinga il settore bancario a incrementare l’erogazione di prestiti. Hanno inoltre riavviato il quantitative easing (QE), con acquisti di obbligazioni a un ritmo mensile di 20 miliardi di euro, nel tentativo di ridurre i tassi d’interesse a lungo termine e stimolare la domanda di prestiti. Tale mossa, accolta (a nostro avviso a torto) favorevolmente da alcuni, ha ridato slancio alle argomentazioni degli osservatori esperti secondo cui l’Eurozona è prigioniera di un circolo vizioso di tassi d’interesse bassi, inflazione modesta e crescita trascurabile. Molti ravvisano in tali sviluppi la “giapponesizzazione” dell’Europa, rammentando il famigerato “decennio perduto” del Giappone. A nostro giudizio, tale opinione poggia su false premesse che non tengono in debito conto gli effettivi problemi del Giappone né le differenze tra la situazione nipponica e quella dell’Eurozona. In breve, non riteniamo che l’Eurozona stia seguendo le orme del Giappone.

Con “giapponesizzazione” si fa riferimento al malessere pluridecennale che ha colpito il Giappone dopo lo scoppio della bolla finanziaria nel 1990. Durante il decennio seguente, definito “perduto”, il paese ha attraversato una fase di stagnazione economica su vasta scala, accompagnata da deflazione e bassi tassi d’interesse. Gli anni 2000 non sono stati molto migliori. Al pari della BCE, la Banca del Giappone ha affrontato tali problemi portando a zero (e poi in territorio negativo) i tassi d’interesse a breve termine e lanciando due programmi pluriennali di quantitative easing (2001-2006 e dal 2010 a oggi) nel corso dei quali la banca centrale ha acquistato titoli di debito a lungo termine e altri attivi al fine di ridurre i tassi d’interesse e favorire i prestiti. Tuttavia, nessuno dei due programmi ha sortito effetti positivi: i tassi d’interesse e l’inflazione restano bassi, mentre la domanda interna appare tuttora debole, a nostro avviso.

A un primo sguardo, l’attuale mix di crescita lenta, inflazione debole, tassi storicamente bassi e politica monetaria interventista riscontrato nell’Eurozona appare simile a quello giapponese. Si tratta però di un paragone troppo semplicistico, che riteniamo ignori gli altri motivi alla base delle difficoltà del Giappone. L’economia giapponese è frenata da una serie di problemi strutturali che il governo nipponico non è stato in grado di risolvere data una presunta mancanza del capitale politico o della volontà necessari a perseguire tale scopo. Il Giappone è in particolare penalizzato da un codice del lavoro restrittivo, che scoraggia le società dall’assumere nuovi dipendenti. I suoi grandi conglomerati possiedono inoltre partecipazioni azionarie reciproche, che formano una rete di cosiddette partecipazioni incrociate che risulta nociva per la concorrenza. Il Giappone risente inoltre di problemi a livello di capitale umano, tra cui bassa partecipazione femminile al mercato del lavoro e livelli di immigrazione probabilmente insufficienti a soddisfare la domanda di forza lavoro causata dall’invecchiamento demografico nipponico. Vi è inoltre il problema delle “banche zombie” che sostengono “società zombie”: banche insolventi che continuano a operare grazie al supporto offerto dal governo, permettendo di tenere in piedi aziende che non sono in grado di onorare il servizio del proprio debito. Questo vincola il capitale e ostacola il processo di “distruzione creativa” che elimina le aziende in declino per fare spazio a nuovi, innovativi concorrenti.

Il ricambio politico e la burocrazia hanno impedito il varo di riforme in grado di risolvere questi e altri problemi fin dal 2006, dalle dimissioni dell’allora primo ministro, Junichiro Koizumi. L’ultima importante riforma, la privatizzazione del colosso bancario Japan Post, risale al governo Koizumi (ci vollero anni perché fosse implementata, e lo fu in una versione annacquata rispetto a quanto originariamente previsto). Dopo Koizumi, il Giappone ha avuto sei primi ministri in sei anni e i continui cambiamenti politici non hanno permesso ai governi di realizzare molto. Si è dovuto attendere la fine del 2012 perché ritornasse la stabilità politica, quando Shinzo Abe divenne premier per la seconda volta e promise di risollevare l’economia. La sua ricetta? Un piano chiamato “Abenomics” che poggia su tre pilastri costituiti da stimolo fiscale, stimolo monetario e riforme economiche strutturali volte a rilanciare la crescita a lungo termine, la produttività e la competitività. Eppure, a distanza di quasi sette anni, le riforme non sono state all’altezza delle aspettative. Abe ha varato tagli alle imposte sulle società, accordi di libero scambio e misure tese a favorire l’immigrazione e la presenza femminile nella forza lavoro, ma le riforme del mercato del lavoro sono state più volte rimandate e i modesti sforzi per migliorare la corporate governance hanno avuto esiti modesti.

L’Eurozona invece è più competitiva e non è gravata dai problemi strutturali del Giappone. Tanto per cominciare, non deve fare i conti con la confusa rete di partecipazioni incrociate detenute dai conglomerati. Ci sono quindi maggiori possibilità di distruzione creativa. I governi dell’Eurozona hanno inoltre ottenuto maggiori successi nel varare riforme del mercato del lavoro. Spagna e Portogallo hanno implementato radicali ristrutturazioni del mercato del lavoro durante e dopo la crisi del debito sovrano dell’Eurozona, rendendo l’occupazione più flessibile e meno costosa per le aziende. Dal 2003 al 2005, anche il governo tedesco ha implementato riforme strutturali del mercato del lavoro su ampia scala al fine di aumentare la flessibilità dell’occupazione, migliorare l’incontro tra domanda e offerta di lavoro per i lavoratori disoccupati e razionalizzare i sussidi di disoccupazione.

C’è chi teme che la politica monetaria della BCE stia cominciando ad assomigliare un po’ troppo a quella della Banca del Giappone, ma crediamo che sia ben lontana dall’innescare un decennio perduto nell’Eurozona. A scanso di equivoci, ci teniamo a precisare che l’attuale politica della BCE (addebitare alle banche una commissione per le riserve in eccesso, acquistando al contempo titoli di Stato e debito societario) è a nostro avviso errata e controproducente, visto che le banche assumono prestiti a breve per finanziare prestiti a lungo termine. Il differenziale tra tassi a breve e a lungo termine, illustrato dalla curva dei rendimenti, incide sulla redditività dei prestiti. Riducendo i tassi, il cosidetto quantitative easing (QE) erode i profitti delle banche; il calo dei profitti rende a sua volta le banche meno propense a erogare finanziamenti, il che vanifica gli obiettivi del QE. Riteniamo che i tassi negativi provochino un effetto simile, in quanto anch’essi erodono i profitti delle banche.

A nostro avviso, tuttavia, la politica della BCE non rappresenta un vento contrario deleterio analogo a quello osservato in Giappone. In primo luogo, l’entità dell’attuale QE della BCE è molto più ridotta di quella del programma attuato in Giappone. Le dimensioni del QE della Banca del Giappone sono le più ampie al mondo in relazione al prodotto interno lordo (PIL, un parametro elaborato dai governi per misurare la produzione economica di un paese). La Banca del Giappone punta ad acquistare annualmente titoli di Stato a lunga scadenza per 80 mila miliardi di yen (pari all’incirca a 665 miliardi di euro), un importo che corrisponde al 16,6% del PIL nominale del 2018![i] Al suo picco nel 2016, la BCE acquistava mensilmente titoli per 80 miliardi di euro, un valore più elevato su scala annua ma pari solo al 9,1% del PIL dell’Eurozona (10.575 miliardi di euro).[ii] L’attuale ritmo degli acquisti (20 miliardi di euro) è ben al di sotto della quota giapponese. Riteniamo improbabile che tale cifra possa incidere ancora significativamente sui tassi. Inoltre, numerosi anni di continua crescita nell’Eurozona malgrado il QE e i tassi negativi dimostrano che un QE duraturo, per quanto erroneo, non paralizza l’economia. Non riteniamo pertanto che vi siano sufficienti motivi per attenderci ora esiti radicalmente diversi.

 

Fisher Investments Italia è la denominazione commerciale utilizzata dalla succursale di Fisher Investments Ireland Limited operante in Italia (“Fisher Investments Italia”). Fisher Investments Italia è iscritta con il n° 182 nell'“Elenco delle Imprese di Investimento autorizzate in altri Stati UE con succursale in Italia”, tenuto dalla Commissione Nazionale per le Società e la Borsa (“Consob”), e al Registro delle Imprese di Parma (numero di iscrizione e codice fiscale: 97838750152; partita IVA: 02903080345; numero REA: PR-276048). Fisher Investments Ireland Limited è una società a responsabilità limitata costituita in Irlanda e operante anche con la denominazione di Fisher Investments Europe (“Fisher Investments Europe”). Fisher Investments Ireland Limited e le sue denominazioni commerciali, Fisher Investments Europe e Fisher Investments Italia, sono iscritte al Companies Registration Office (registro delle imprese) irlandese con i numeri 623847, 629724 e 629725. Fisher Investments Europe è regolamentata dalla Banca Centrale d'Irlanda. La sede legale di Fisher Investments Europe è: 2nd Floor, 3 George’s Dock, International Financial Services Centre, Dublin 1, D01 X5X0 Irlanda.

 

Fisher Investments Europe affida una parte degli aspetti dell’attività giornaliera di consulenza di investimento e gestione di portafoglio e delle funzioni di trading alle proprie affiliate. In particolare, la preparazione delle relazioni sull'adeguatezza degli investimenti sarà parzialmente espletata da Fisher Investments Europe Limited, operante con la denominazione di Fisher Investments UK (“Fisher Investments UK”), mentre l'attività decisionale giornaliera della strategia di portafoglio sarà svolta da Fisher Asset Management, LLC, operante con la denominazione di Fisher Investments (“Fisher Investments”). Le funzioni di trading potranno essere svolte da Fisher Investments Europe, Fisher Investments UK, Fisher Investments o da altre loro affiliate.

 

L’investimento nei mercati finanziari comporta il rischio di perdita e non è possibile garantire il rimborso totale o parziale del capitale investito. Le performance passate non sono una garanzia né un indicatore affidabile di performance future. Il valore degli investimenti e i relativi rendimenti sono soggetti alle fluttuazioni dei mercati finanziari mondiali e dei tassi di cambio internazionali.

 


[i] Fonte: FactSet, al 18/11/2019.

[ii] Ibid.


Borsa Italiana non ha responsabilità per il contenuto del sito a cui sta per accedere e non ha responsabilità per le informazioni contenute.

Accedendo a questo link, Borsa Italiana non intende sollecitare acquisti o offerte in alcun paese da parte di nessuno.


Sarai automaticamente diretto al link in cinque secondi.