Censis, Rapporto 2025: ceto medio in affanno, ricchezza famiglie in calo come le retribuzioni
(Teleborsa) - Il ceto medio, in Italia, vive in uno stato febbrile: nella stagnazione, in una condizione di grave affanno o, peggio ancora, rischia di perdere lo status socio-economico faticosamente conquistato nel tempo. A lanciare l'allarme è il Censis nel suo Rapporto annuale dove fotografa una situazione a più ombre che luci che tratteggia un Paese che non riuscendo a spezzare la trappola del declino, ha rimodulato attese e desideri. "La regressione demografica, con il progressivo invecchiamento della popolazione e i tassi di natalità in caduta libera, provoca l'arresto dei processi di proliferazione delle piccole imprese", avverte il Censis. In vent'anni (2004-2024) il numero dei titolari d'impresa si è assottigliato da oltre 3,4 milioni a poco più di 2,8 milioni: -17% (quasi 585.000 in meno). I giovani imprenditori con meno di 30 anni sono diminuiti nello stesso periodo del 46,2% (quasi 132.000 in meno). E se il reddito delle piccole imprese (fino a 5 addetti) corrispondeva al 17,8% del Pil nel 2004, e poi era sceso al 15,7% nel 2014, nel 2024 si è ridotto al 14,0%. Si indebolisce anche l'altro pilastro: il lavoro. Nel 2024 il valore reale delle retribuzioni risulta inferiore dell'8,7% rispetto al 2007. Nello stesso periodo il potere d'acquisto pro capite ha subito un taglio del 6,1%, nonostante il recente parziale recupero (+2,0% tra il 2022 e il 2024) .Tra il primo trimestre del 2011 e il primo trimestre del 2025, quasi quindici anni, la ricchezza delle famiglie italiane è diminuita in termini reali dell'8,5%. Dividendo le famiglie italiane per decili di ricchezza detenuta, il 50% delle famiglie più povere ha visto diminuire la propria ricchezza del 23,2%, le famiglie distribuite tra il sesto e l'ottavo decile hanno subito una riduzione del patrimonio iniziale tra il 35,3% e il 24,3%, tra le famiglie del nono decile la diminuzione è stata del 17,1%, mentre il 10% delle famiglie più ricche ha visto aumentare la propria ricchezza del 5,9%. All'inizio del 2025, il 60% della ricchezza nazionale è posseduto da 2,6 milioni di famiglie appartenenti al decimo decile. Di più: il 48% della ricchezza è in mano a 1,3 milioni di famiglie che costituiscono il 5% delle famiglie più abbienti. La quota di ricchezza detenuta da 13 milioni di famiglie che si trovano invece alla base della piramide patrimoniale è scesa dall'8,7% del 2011 al 7,3% del 2025.
Negli ultimi anni l'inflazione ha condizionato pesantemente i comportamenti di consumo delle famiglie italiane, scottate dall'improvvisa fiammata del 2022 e preoccupate a causa della persistente corsa dei prezzi nei mesi successivi. Il costo del carrello della spesa è aumentato del 23% tra il 2019 e il 2024, mentre l'inflazione generale del 17,4%. Si è speso di più, ma si è consumato di meno. Nel periodo 2019-2024 il costo dei generi alimentari è aumentato del 22,2%, ma il volume effettivamente acquistato si è ridotto del 2,7%. Anche nell'ambito dell'abbigliamento la forbice tra spesa e acquisto mantiene un'ampia differenza (+4,9% in valore e -3,5% in volume per vestiario e calzature). I servizi assicurativi e finanziari sono aumentati del 47,3% in termini nominali, ma il ricorso a tali servizi si è ridotto del 2%. I servizi finanziari, pari a un valore di 40 miliardi di euro, il 3,2% della spesa complessiva, senza comprendere i servizi assicurativi, hanno mostrato una crescita del prezzo, sempre tra il 2019 e il 2024, del 106,2%
Il Grande Debito inaugura il nuovo secolo delle società post-welfare. La crescita vertiginosa dell'indebitamento delle economie avanzate le rende fatalmente più fragili e vulnerabili. Tra il 2001 e il 2024 nei Paesi del G7, a fronte di una stentata crescita dell'economia, il debito pubblico è lievitato dal 75,1% al 124,0% del Pil. In Italia dal 108,5% al 134,9%, in Francia dal 59,3% al 113,1%, nel Regno Unito dal 35,0% al 101,2%, negli Stati Uniti dal 53,5% al 122,3%. Non siamo più l'unico malato d'Europa. Nel 2030 il rapporto debito pubblico/Pil nei Paesi del G7 supererà il 137%, ritornando prossimo al livello raggiunto nel 2020 a causa della pandemia, quando sfiorò il 140%. Si annuncia uno shock per le finanze pubbliche analogo a quello vissuto durante l'emergenza sanitaria, ma questa volta il debito record sarà maturato in condizioni ordinarie, in assenza di una pandemia. "Il Grande Debito determina una mutazione ontologica dello Stato: da Stato fiscale a Stato debitore. Gli Stati debitori non potranno abbassare le tasse, obiettivo sempre promesso dagli Stati fiscali e puntualmente disatteso. L'ingente debito e la bassa crescita, legata all'invecchiamento demografico e alla riduzione della popolazione attiva, congiurano per un inevitabile ridimensionamento del welfare. Gli interessi pesano come zavorre sui conti pubblici e restringono anche gli spazi di manovra sugli investimenti produttivi e gli stimoli alla crescita", evidenzia il rapporto annuale del Censis.
A settembre il debito pubblico italiano ha toccato la cifra record di 3.081 miliardi di euro (+38,2% rispetto a settembre 2001). Nell'ultimo anno la spesa per interessi è stata pari a 85,6 miliardi, corrispondenti al 3,9% del Pil: il valore più alto tra tutti i Paesi europei (a eccezione dell'Ungheria: 4,9%), anche più della Grecia (3,5%) e molto al di sopra della media europea (1,9%). Gli interessi pagati superano non solo la spesa per i servizi ospedalieri (54,1 miliardi), ma l'intero valore degli investimenti pubblici (78,3 miliardi) e ammontano a più di dieci volte quanto l'Italia spende in un anno per la protezione dell'ambiente (7,8 miliardi). La vulnerabilità è accresciuta dal fatto che i titoli del debito pubblico italiano sono in mano prevalentemente a creditori residenti all'estero: il 33,7% del totale (ovvero più di 1.000 miliardi), a fronte del 14,4% detenuto dalle famiglie e del 19,2% dalla Banca d'Italia. "Senza welfare le società diventano incubatori di aggressività e senza pace sociale le democrazie vacillano", avverte il Censis. Per l'81% degli italiani è ora di punire i giganti del web che sfuggono alla tassazione
Dal rapporto emerge anche come il nostro Paese ha saputo, più e meglio di altre grandi democrazie occidentali, porsi faccia a faccia con il presente. La società italiana, non riuscendo a spezzare la trappola del declino, ha rimodulato attese e desideri. Certo, scontando la perdita di potenza dei trascorsi processi di ascesa economica e sociale, e senza poter contare su riforme e adeguamenti strutturali alle grandi trasformazioni in corso. Nel saper stare insieme sull'esistente si sfebbrano gli eccessi, si metabolizzano aggressività ed esclusione, si contrasta l'instabilità politica e sociale, si limitano le conseguenze del ritardo dello sviluppo economico. Ma l'autonoma difesa immunitaria non basta: non può sostituire la necessità di visione e di azione".
Quasi la metà degli italiani, pari al 46,4%, preferirebbe un impiego dipendente nel settore pubblico, il 30,6% opterebbe per il privato e solo l'11% sceglierebbe la libera professione o l'imprenditoria. La stabilità è il motivo dominante: il 63% degli occupati nel settore pubblico la indica come la prima ragione, seguita dalla certezza del reddito fisso (55,1%) e dalla possibilità di evitare il rischio di licenziamento (35,2%). Gli italiani cercano soprattutto impieghi duraturi, capaci di garantire continuità nel tempo.
In Italia si sta verificando una senilizzazione del mercato del lavoro. La demografia ha cambiato volto all'occupazione. L'incremento di 833.000 occupati registrato nel biennio 2023-2024 è dovuto prevalentemente alle persone con 50 anni e oltre: +704.000, ovvero l'84,5% di tutta la nuova occupazione. È quanto emerge dal rapporto del Censis. Il saldo positivo nei primi dieci mesi del 2025 (206.000 occupati in più rispetto allo stesso periodo dell'anno scorso) dipende esclusivamente dai più anziani, che aumentano di 410.000 unità (+4,2%), a fronte di -96.000 occupati di 35-49 anni (-1,1%) e -109.000 con meno di 35 anni (-2%). Tra i giovani sono in netto aumento gli inattivi: +176.000 nei primi dieci mesi dell'anno (+3,0%). Nel biennio 2023-2024 l'input di lavoro supera largamente la crescita dell'economia: +3,7% gli occupati, +5,3% le ore lavorate, solo +1,7% il Pil.
Infine, dal rapporto emerge che nel nostro Paese più della metà delle donne (il 54,4%) si occupa personalmente delle faccende domestiche, a fronte di appena il 17,6% degli uomini. La differenza è di quasi 37 punti percentuali. Il lavoro invisibile, ovvero la cura della casa e della famiglia, resta prevalentemente un carico femminile. Si sottrae del tutto alle mansioni domestiche il 14,9% degli uomini, contro solo il 5,6% delle donne. È quanto emerge dal rapporto del Censis. Il 67,5% degli uomini si occupa delle faccende insieme ad altri membri della famiglia, mentre solo il 40% delle donne condivide con altri il carico di lavoro. Quasi 6 donne su 10 (il 59,0%) vi dedicano almeno due ore al giorno.
(Teleborsa) 05-12-2025 12:32