Legge Fornero: cosa dice e cosa ha cambiato la riforma pensioni Fornero

La legge Fornero nel Decreto Salva-Italia. Cosa dice la riforma Fornero e cosa è cambiato per le pensioni dal passaggio del retributivo al contributivo.



FTA Online News, 14 Dic 2019 - 11:10

Nel sistema pensionistico italiano, la Manovra Salva-Italia (la legge 214 del 22-12-2011) più che una rivoluzione ha portato coerenza, completando un disegno che da anni era rimasto in sospeso: il passaggio definitivo dal sistema retributivo a quello contributivo.


Differenza tra sistema retributivo al sistema contributivo

In soldoni, nel sistema retributivo, il più conveniente per il lavoratore (e costoso per il sistema), si calcola la pensione in percentuale dell’ultima retribuzione. Al lavoratore spesso questa forma di previdenza conviene, perché si traduce in un assegno mensile calcolato con una percentuale degli ultimi stipendi (verosimilmente il più “ricco” della carriera lavorativa), indipendentemente dai versamenti effettuati negli anni.

Al contrario, il sistema contributivo istituisce tra il lavoratore e l'istituto previdenziale un rapporto del tipo “do ut des”, ossia un contratto in base al quale, tanto maggiori sono stati i contributi durante la carriera del lavoro (tanto più si è “dato” al sistema), tanto maggiori saranno gli assegni pensionistici nella terza età (tanto più si “riceve”).

Queste due polarità “filosofiche” della pensione in un certo senso rappresentano due epoche diverse dello Stato Sociale e sono la bussola del cambiamento cercato dal Salva Italia. In realtà si era già al guado da anni: il sistema precedente, infatti, non era un sistema retributivo puro, ma un sistema misto, una sorta di stato di transizione, di ponte verso un sistema contributivo ormai ritenuto inevitabile.

Qualche cifra può chiarire tutto. Prima della riforma il citato sistema misto prevedeva l’introduzione nel conteggio dei requisiti per l’accesso alla pensione di due numeri: il numero di anni di contributi versati e quello degli anni di anzianità anagrafica del lavoratore. Chi avesse lavorato per 35 anni e raggiunto un’età di 60 anni avrebbe raggiunto una quota di 95 punti. Il pensionamento scattava solo a 96 punti (entro il 2012), quindi, per esempio, con 65 anni di età e 31 di contributi o 36 di contributi e 60 anni di età. In base allo spartiacque della Riforma Dini i 18 anni di contributi precedenti il 1995 andavano a una pensione retributiva, quelli successivi a una contributiva. La giovane età lavorativa delle generazioni precedenti aveva però in pratica portato l’età media dei pensionati Inps nei primi dieci mesi del 2011 a 58,7 anni, causando i malumori di Confindustria tra gli altri.

 

Legge Fornero: come è cambiato il sistema pensionistico

La Manovra Salva-Italia fa piazza pulita di questo calcolo e traghetta verso il contributivo l’intero sistema, fermi restando i due criteri di pensionamento dell’anzianità anagrafica e degli anni di contributi versati. Con il primo criterio si ottiene la pensione a 66 anni, se uomini, a 62 se si è donne (e in particolare dipendenti private, gradualmente però questo requisito anagrafico sarà innalzato fino a raggiungere nel 2018 i 66 anni). Requisito fondamentale è quello dei 20 anni almeno di contributi versati. Per chi voglia andare prima in pensione gli anni di contributi minimi non sono più 40, ma 41 e un mese per le donne e 42 anni e un mese per gli uomini, con un incremento graduale negli anni a venire di qualche mese.

Esistono in realtà delle deroghe a questo principio in base ad alcuni spartiacque, come l’ingresso nel mondo del lavoro nel 2008 o nel 1995. In linea generale, però, la riforma tende a privilegiare una uscita dal lavoro posticipata con degli incentivi graduali fino ai 70 anni. Per chi va in pensione prima sono previsti svantaggi sul pensionamento dai 62 anni in giù ed è in ogni caso vietato l’abbandono del lavoro se l’assegno previdenziale non è pari almeno a 1,5 volte l’assegno sociale dell’Inps (circa 468 euro quindi per pensioni di almeno 1404 euro circa).

 

Conclusioni

L’obiettivo del nuovo più duro sistema pensionistico è quello sostanzialmente di abbattere il peso di questa voce della spesa pubblica che in tutti i paesi occidentali si è rivelata sempre meno sostenibile negli anni con la crescita del costo del Welfare e l’invecchiamento della popolazione. D’altronde gli effetti calcolati dalla relazione tecnica sulla nuova manovra evidenziano una riduzione della incidenza della spesa pensionistica dello 0,2% del Pil nel 2012, dello 0,9% nel 2015 fino a un massimo dell’1,4% del Prodotto Interno Lordo italiano nel 2020 con un successivo graduale ribasso del peso dell’intervento sul Pil fino all’annullamento degli effetti nel 2045. Per quanto amara la riforma ha il carattere di un taglio strutturale a una voce “pesante” della spesa pubblica.


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