Riforma Dini (1995): dal sistema pensioni retributivo al contributivo
La riforma Dini del 1992 (legge 335/1995). Dal sistema pensionistico retributivo al contributivo. Scopri cosa sono e le differenze.
FTA Online News, 14 Dic 2019 - 11:02
Dopo soli tre anni dall’approvazione della riforma Amato (1992), ci si accorse che le variazioni apportate al sistema previdenziale non sarebbero state sufficienti a garantire la stabilità dei conti nel corso del tempo. Il continuo evolversi dello scenario demografico (sempre più somigliante a una piramide rovesciata, ossia pochi lavoratori e molti pensionati) e il permanere dello squilibrio tra contributi e prestazioni (ancora calcolate sulla base degli ultimi redditi dei lavoratori) resero necessario – per garantire solidità al sistema nel suo complesso – una riforma che intervenisse sulla struttura e sui meccanismi del comparto previdenziale più di quanto non avesse fatto la riforma Amato.
Dal sistema retributivo a quello contributivo
L’innovazione più grande apportata dalla riforma Dini, approvata l’8 agosto 1995 e operativa da inizio 1996, è stata l’introduzione nel sistema previdenziale italiano di un nuovo meccanismo di calcolo delle pensioni.
Al fine di garantire la sostenibilità della spesa pensionistica e di riequilibrare i rapporti tra generazioni (che, in virtù del sistema retributivo erano sbilanciati verso gli anziani), si introdussero allora nell’ordinamento pensionistico dei criteri orientati all’equità finanziaria tra contributi versati e prestazioni riscosse. Con la riforma Dini, infatti, è entrato in vigore per il calcolo della pensione un sistema di tipo contributivo, ossia fondato sul totale dei contributi versati dal lavoratore nel corso della propria vita lavorativa (rivalutati nel corso del tempo).
Il cambio di rotta stabilito, ovviamente, non è stato brusco, ma graduato negli anni e applicato in base agli anni di contributi già versati dai lavoratori al momento dell’entrata in vigore della riforma. Nel dettaglio, passarono al nuovo sistema quanti alla fine del 1995 non avessero maturato almeno 18 anni di versamenti (limitatamente ai contributi versati a partire dal 1° gennaio 1996) e chi avesse iniziato a lavorare solo nel 1996.
La flessibilità dell’età pensionabile e la Gestione separata
La riforma Dini portò considerevoli cambiamenti anche in riferimento all’età pensionabile, che venne resa flessibile e compresa, tanto per gli uomini quanto per le donne, in una fascia racchiusa tra i 57 e i 65 anni (pensione piena a 65 anni e, in altri casi, assegno commisurato all’età e agli anni di contribuzione).
Il progetto di riforma Dini incise anche sul requisito degli anni minimi di contribuzione necessari per maturare il diritto alla pensione. Resa obbligatoria – a partire dal 1996 – presso la neoistituita Gestione separata dell’Inps la contribuzione previdenziale anche per i lavoratori per cui fino allora non era prevista (professonisti e co.co.pro.), la riforma Dini rese variabile la minima contribuzione necessaria, legandola al sistema contributivo di appartenenza di ogni singolo lavoratore.
Finestre d’uscita e altre novità
Altre novità introdotte con la riforma Dini riguardarono i requisiti per il pensionamento dei lavoratori deputati ad attività “usuranti”, i tempi di uscita dal lavoro e le pensioni di invalidità.
Con le nuove norme, venne concessa alle categorie impegnate nei lavori usuranti la possibilità di fruire di un "bonus" non solo per "accorciare" l'eta' fissata per la pensione di vecchiaia (come previsto dalla riforma Amato), ma anche per ridurre il numero di anni di versamento richiesti per questa prestazione (20 anni) o per "ridurre" il requisito anagrafico richiesto per l'accesso alla pensione di anzianità, in aggiunta a quello contributivo dei 35 anni di versamento. In linea generale, si può dire che per ogni anno di lavoro "usurante" si concesse uno "sconto" sull'età pensionabile di due mesi, fino ad un massimo di cinque anni.
Inoltre, si fissarono per la prima volta delle finestre di uscita – ossia dei periodi di tempo determinati – per raggiungere la pensione di anzianità e si programmò una stretta sulle pensioni di invalidità e reversibilità, riducendole in presenza di altri redditi.
I riflessi della riforma
Soprattutto in ragione del passaggio stabilito da un sistema di tipo retributivo a uno di tipo contributivo, la riforma Dini chiamò gli italiani a un notevole cambio di atteggiamento culturale verso le pensioni.
Calcolate con il sistema contributivo, le pensioni vennero condannate a essere meno generose di quelle del passato. Emerse dunque un dato obiettivo: per avere una pensione equivalente a quella pre-riforma Dini, dopo il rinnovamento del sistema è necessario lavorare più a lungo o accumulare più risparmio. Proprio con questo progetto di riforma, insomma, nacque per le nuove generazioni – che subiranno i tagli più severi in merito alla pensione pubblica – la necessità di fare ricorso alla previdenza integrativa.