Masi Agricola: la raffinata scienza del vino a Piazza Affari
Intervista all’amministratore delegato Federico Girotto
22 Feb 2018 - 10:00
Raccontare la storia di Masi Agricola è un po’ raccontare un pezzo importante della storia del vino italiano, non solo perché questi protagonisti dell’Amarone mettono in bottiglia l’esperienza di sette generazioni, ossia il tempo trascorso da quando nel 1772 la famiglia Boscaini comprò il “Vaio dei Masi” - il vigneto della Valpolicella Classica che ha dato il nome al gruppo ed è ancora di sua proprietà - ma perché l’attenzione alla filiera e al territorio di uno dei pochi grandi produttori italiani di vino “premium” guarda al futuro e ai mercati mondiali. L’amministratore delegato Federico Girotto è nel gruppo dal 2014 (un anno prima della quotazione di Masi sull’AIM Italia) dopo avere avuto esperienze in Arthur Andersen, Morellato & Sector e Stefanel: ci spiega che la valorizzazione del brand per una società come Masi è qualcosa di più dell’articolazione di una campagna di marketing, è la declinazione di un’identità.
Chi è Masi Agricola oggi?
“Siamo una società basata su tre macro competenze fondamentali. Innanzitutto siamo un individual brand builder, questo significa che lavoriamo per focalizzare l’interesse e l’apprezzamento del consumatore soprattutto verso il marchio individuale dei nostri prodotti (Costasera, Campofiorin ecc.) e solo in secondo ordine verso la rispettiva denominazione collettiva di appartenenza (Amarone, Valpolicella, ecc.). Altra nostra caratteristica è il voler essere interpreti dei valori delle Venezie, vale a dire il nostro macro-terroir geograficamente coincidente con il territorio dell’antica Repubblica Serenissima e caratterizzato da elementi storici e culturali comuni, tra cui la sorta di koinè parlata dagli abitanti. Valori in senso vitivinicolo: vinifichiamo praticamente solo uve di varietà autoctone delle Venezie e la gran parte dei nostri vini è ottenuta con l’applicazione dell’appassimento delle uve dopo la vendemmia, metodo ancestrale di epoca preromana (tradizionalmente usato per il Recioto e l’Amarone) che Masi ha saputo attualizzare in termini di ricerca e sviluppo e che oggi adotta anche in maniera non convenzionale per prodotti di tipo diverso, come vini rosati, bianchi e spumanti. Un impegno volto anche a propugnare i valori delle Venezie sotto il profilo della cultura più ampia, con il supporto che forniamo alla Fondazione Masi, che realizza ogni anno l’omonimo Premio, di cui quest’anno vedremo la 37ᵃ edizione. Terza peculiarità di Masi è quella di operare in equilibrio tra “tradizione e innovazione”: siamo innovatori nella distribuzione (Masi è tra le prime aziende italiane a operare nel travel retail), nel marketing e nella comunicazione, così come nel consolidare, secondo uno schema di amicable aggregation, altri brand vinicoli di eccellenza delle Venezie come quelli collegati alle famiglie dei Conti Serego Alighieri (nostri partner dal 1973) e dei Conti Bossi Fedrigotti in Trentino (dal 2007). Ma anche innovazione nella finanza: siamo la prima azienda del vino, italiana, che ha compiuto il percorso da private equity backed all’IPO”.
Come è avvenuto il vostro approccio al mercato?
“La crescita ci ha portato a un confronto naturale con il mercato, anche per la voglia di apprendere le best practice gestionali e portare una maggiore trasparenza sulle nostre attività. Dapprima si sono registrati gli investimenti del private equity Alcedo nel 2006, poi siamo passati alla palestra di ELITE, con cui ci siamo certificati nel 2013, quindi siamo arrivati alla quotazione sull’AIM Italia nel 2015 che ha avuto un valore di 29,6 milioni di euro e non è stata dettata tanto dalla ricerca di capitali finanziari – anche allora non avevamo debiti rilevanti – ma di “capitale culturale”: competitività, maggiore opportunità di integrazione di altri brand di qualità, competenze. La metà circa degli investitori è venuta dall’estero, con offerta dedicata esclusivamente a operatori istituzionali e professionali. Noi però vogliamo un rapporto speciale con gli azionisti retail e quindi abbiamo creato anche un Masi Investor Club, un programma dedicato ai nostri investitori che, con una soglia d’ingresso di mille azioni, fornisce loro la possibilità di soddisfare interessi sia finanziari e che emozionali, mostrandogli da vicino il mondo Masi, le cantine, i processi di lavorazione, le vigne. Con lo stesso spirito abbiamo creato il ‘Masi Wine Discovery Museum’, un museo esperienziale del vino realizzato a Lazise, sul Lago di Garda, all’interno della nostra Tenuta Canova”.
Cosa avete fatto con le risorse raccolte?
“Una decina sono andati “in secondario” ad Alcedo, che ha ridotto la propria quota (oggi, dopo l’effetto diluitivo, detiene il 6% del capitale), mentre gli altri 20 milioni sono dedicati a supportare la crescita sia organica, che per linee esterne del Gruppo, e per il nostro progetto strategico “Masi Wine Experience”, funzionale a ottenere un contatto sempre più diretto con il consumatore finale. Abbiamo rilevato nel settembre 2016 il 60% di Canevel per 7 milioni di euro, una acquisizione che ci ha portato 26 ettari di terreni - per la maggior parte vitati - nella zona Valdobbiadene Superiore DOCG e quindi la produzione di vini spumanti premium”.
Come funziona il mercato dei vini premium italiano, ha delle caratteristiche proprie rispetto ad altri Paesi?
“Il mercato dei vini fermi premium italiano è molto maturo, quindi i margini di manovra sono ridotti per chi vuole farne parte. Noi ci muoviamo con un’esperienza rara nel nostro settore, in quanto integriamo totalmente la nostra filiera e sorvegliamo tutta la catena di valore dalla vigna alla bottiglia. Consideri che in Italia ci sono circa 650 mila ettari di vigneti, la proprietà media però è di appena 2 ettari circa. I produttori di vino sono circa 60 mila, ma solo una trentina di aziende vinicole superano i 50 milioni di fatturato, quindi si può capire l’enorme frammentazione della filiera alla base e - per un produttore premium come Masi – e l’importanza del brand che impone spese di marketing e produzione che i piccoli operatori non possono affrontare. Anche noi ci appoggiamo, in parte, a una stabile rete di piccoli proprietari che operano implementando i protocolli produttivi del Gruppo Tecnico Masi. In Italia la fiscalità agevolata delle aziende agricole abbassa le barriere di ingresso, scoraggiando l’efficienza.
In Francia è diverso, ci sono i cosiddetti negociant che comprano le produzione con l’obiettivo di supportare sia la denominazione collettiva del territorio, sia il proprio marchio aziendale; e quindi sanno dare alla filiera il giusto peso alla qualità, con il corollario di marketing e comunicazione che ne consegue”.
Mi sembra che il 2017 sia stato molto difficile per il vostro settore…
“Per quantità è stata la seconda peggiore vendemmia italiana dal Dopoguerra. La produzione italiana ha mostrato un calo del 28% circa in termini di volumi, ossia si è ridotta di oltre 15 milioni di ettolitri rispetto all’anno prima. Siamo un settore in delicato equilibrio col clima, per una vendemmia di qualità occorrono anche variabili esogene “normali”, quindi fisiologici valori di temperatura e di precipitazioni. L’ultima vendemmia ha causato una leggera contrazione dei nostri margini che però è stata tutta spesata nel terzo trimestre i cui dati sono stati pubblicati lo scorso novembre”.
Il vostro è un business orgogliosamente concreto: ci dà qualche numero?
“Abbiamo circa 314 ettari nostri e 67 di proprietà di terzi ma in gestione di lungo termine, a cui vanno aggiunti i 26 di Canevel: quindi circa 400 ettari in totale. Nel 2016 abbiamo conseguito ricavi per 64 milioni di Euro e confermiamo vendite oltre l’80% rivolte all’estero. I nostri vini sono pluripremiati: Gambero Rosso ci ha conferito il premio Cantina dell’Anno 2018 e i nostri Amaroni e il Supervenetian Campofiorin sono tra i più riconosciuti dagli esperti del settore. Nei primi nove mesi del 2017 abbiamo registrato ricavi per 44,72 milioni in crescita dell’1%, ma un ebitda in calo da 10,72 a 8,35 milioni, anche per via della brutta vendemmia di cui accennavamo prima. Alla fine di settembre l’indebitamento netto era pari a 6,3 milioni - in calo dai 6,6 milioni di fine 2016 - a fronte di un patrimonio netto che a metà 2017 superava i 108 milioni di euro. In termini di attività le nostre immobilizzazioni materiali superano i 54 milioni e quelle immateriali i 16,5 milioni di euro”.
Masi Agricola è una PMI italiana controllata dalla famiglia fondatrice Boscaini, nel tempo però si nota l’ingresso nel board di figure esterne alla proprietà, come lei: è in corso un processo di managerializzazione della gestione?
“Assolutamente sì, e da tempo. In un board di 9 componenti, 3 non appartengono alla famiglia e - di questi - 2 sono consiglieri indipendenti, uno standard volontario adottato dalla famiglia Boscaini per rafforzare la trasparenza. Il nostro modello di corporate governance prevede anche un voto di lista al 7,5%, un limite al possesso azionario al 40 per cento, e la figura dell’Investor Relator. Infine alla gestione diretta della famiglia Boscaini si affiancano da tempo manager professionali”.