IWB, quando la finanza sposa il vino

L’Ad Mutinelli ci racconta come vende più di 50 milioni di bottiglie italiane nel mondo



21 Nov 2018 - 10:00

“Non siamo un’azienda del vino come le altre, almeno in Italia, e da quando siamo nati, circa quattro anni fa, abbiamo dimostrato che per il nostro settore è possibile crescere nei mercati internazionali grazie a un approccio nuovo e alla qualità di un prodotto che il mondo ci riconosce”. Alessandro Mutinelli, presidente, ad e azionista di IWB (Italian Wine Brands), è da più di vent’anni nel settore del vino, ma ha una formazione e un’esperienza finanziaria pregresse che si intrecciano da vicino con l’approccio moderno che la sua impresa sembra imprimere a un sistema ancora per certi versi molto tradizionale.

“Noi abbiamo un orientamento totalmente focalizzato sul marketing, non siamo la tipica piccola cantina che vende una storia e un prodotto, magari pregevoli, cercando di valorizzare la propria nicchia. Noi siamo costantemente in giro per il mondo ad ascoltare quello che il mercato chiede. Quando lo comprendiamo avviamo la produzione e vendiamo. Abbiamo un’attenzione maniacale per le esigenze del nostro cliente. Inoltre siamo strutturalmente diversi da gran parte degli operatori italiani”.

In che senso?
“Non siamo una famiglia che da duecento anni produce vino negli stessi poderi e si passa la staffetta generazionale. Siamo un gruppo di manager e investitori finanziari internazionali che operano sul mercato e dal mercato provengono. Siamo stati la prima industria del vino a quotarsi a Piazza Affari perché abbiamo capito che c’erano delle grandi opportunità e altrettante sfide. Il nostro gruppo non possiede direttamente la terra, ma produce vino e lo vende sulla base delle richieste che percepisce in Cina o in Germania: più del 75% del nostro giro d’affari viene dall’estero. Per vendere 50-60 milioni di bottiglie di vino l’anno ci vorrebbero 5-6 mila ettari di terra, forse solo la Regina d’Inghilterra ha proprietà di questa estensione. Insomma economicamente non sarebbe sostenibile in termini di redditività in un settore che già affronta sfide importanti sui margini. Verrebbe inoltre meno una flessibilità importante che serve ad adattare la nostra produzione alla domanda internazionale”.

L’impressione è che l’internazionalizzazione per il vino italiano sia una necessità: da anni la domanda italiana è in calo. Un trend confermato anche dal fatturato di IWB del primo semestre 2018: su 69,94 milioni di euro (+1,38%), più di 54 milioni vengono dall’estero e registrano un incremento del 6,18%, mentre i 15,75 milioni di euro di fatturato italiano mostrano una flessione del 12% circa. E’ corretto leggere anche in questa maniera la vostra propensione per l’estero? Pensate che il nostro prodotto possa competere su scala globale?

“E’ corretto, oggi il mercato italiano si è polarizzato: o si rimane molto piccoli difendendo e vendendo una storia spesso di grande qualità o si cresce nel mondo e si affrontano i costi necessari. Nel mezzo si fa troppa fatica. Competere su scala globale però significa attrezzarsi per seguire i mercati internazionali da vicino, non basta cercare il cliente con due viaggi l’anno. Bisogna affrontare i grandi costi necessari a vendere in mercati lontani. Noi abbiamo una piattaforma logistica capace di servire più di un milione di clienti in Europa, abbiamo vendite che per metà sono dirette alla grande distribuzione organizzata e per il resto alla vendita diretta, anche online. Il progetto IWB, grazie all’operazione promossa dalla prebooking company IPO Challenger di Electa di Simone Strocchi (che ci ha fortemente supportati), ha aggregato Provinco -che ho personalmente fondato- e Giordano Vini -che ha una storia ultracentenaria -in unico Gruppo quotato in Borsa. Fin dalla nascita di questa nuova realtà avevamo in mente un’idea industriale e finanziaria -se vogliamo- anomala per il mercato italiano, ma fortemente vocata al futuro”.

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E’ stato difficile imparare il linguaggio dei mercati in vista della quotazione in Borsa? Come è andata? Ora cosa prevedete?

“Avevamo già un background finanziario che ci ha consentito di superare in maniera abbastanza agevole la sfida. IWB capitalizza oggi più di 90 milioni di euro. E’ una vera e propria public company con un flottante di poco inferiore all’80% e uno zoccolo duro formato da Provinco al 9,08%, IPOC (la ex IPO Challenger Ndr) all’8,67% e Praude Asset Management poco sopra il 5% del capitale.
In futuro? Prevediamo di crescere ancora, anche per linee esterne, e di creare ancora valore per i nostri azionisti”.

La vendemmia del 2017 è stata difficile: volumi storicamente bassi, anche se di ottima qualità, hanno portato in deciso rialzo i costi dell’uva, che per voi sono fondamentali. In questo questo contesto sfidante voi avete registrato un calo contenuto dell’utile semestrale a 2,76 milioni di euro (-2,82%) e siete riusciti a tagliare il debito del 16,6% a 11,29 milioni (contro un patrimonio da oltre 80 milioni di euro): come è andata? Cosa prevedete dopo la vendemmia del 2018?

“E’ stato un anno estremamente difficile perché l’impennata dei costi di uva, mosto e vino sfuso ha inciso sui nostri margini, ma siamo riusciti a limitare l’impatto a un aumento dell’incidenza dei costi per acquisti sul totale dei ricavi al 5% (il 57,1% in totale a fine primo semestre 2018). Abbiamo però dovuto operare una netta razionalizzazione dei costi commerciali variabili e dei costi fissi di struttura, anche dolorosi. In compenso siamo riusciti a investire più di 1 milione di euro nella nuova linea di confezionamento automatica e abbiamo consolidato la nostra attività. Il 2018 si presenta totalmente diverso. La vendemmia mostra buoni volumi e dovrebbe quindi essere più semplice; ma sarà una storia che racconteremo soprattutto l’anno prossimo”.


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