Fope, l’Industria vicentina del gioiello punta a crescere ancora
Intervista all’amministratore delegato Diego Nardin
03 Apr 2018 - 11:30
“Siamo un’azienda Industriale, con la I maiuscola e lo dimostrano i nostri investimenti in tecnologia e la nostra catena di valore”. Diego Nardin, amministratore delegato (e azionista al 6,6% circa) di FOPE, che produce gioielli nel distretto orafo di Vicenza dal 1929 ed è quotata sull’AIM di Borsa dal novembre del 2016, sottolinea con orgoglio il carattere industriale del gioielliere che ha superato da tempo la dimensione prettamente artigianale per approdare a quella industriale.
“Nel nostro laboratorio di Vicenza realizziamo la tecnologia che ci serve per affrontare il mercato e la prova del nostro approccio è nella qualità e nella quantità dei nostri brevetti e modelli industriali depositati che affiancano l’usuale deposito dei marchi. Dietro i nostri prodotti, oltre all’impegno per realizzare collezioni dal design elegante ed esclusivo, c’è dunque tutta una tecnologia che abbiamo sviluppato e che ci permette di competere nei mercati globali. Abbiamo realizzato dei bracciali con micro-molle d’oro che rendono la maglia elastica ed eliminano la necessità di una chiusura: la nostra linea Prima arriva a circa 150 micro-molle d’oro in un bracciale e ha richiesto più di 18 mesi per lo sviluppo.
Questi risultati sono il frutto di anni di investimenti che ci hanno consentito di chiudere bilancio del 2017 con un apporto dei mercati esteri al nostro fatturato dell'82% ci hanno dato grandi soddisfazioni gli Stati Uniti, il Regno Unito e la Germania con crescite del 24% in Europa e del 22% nei mercati americani. L’anno scorso il nostro giro d’affari complessivo ha superato i 28 milioni di euro contro una crescita di oltre il 21 per cento”.
Avete anche annunciato la costituzione di una società nel Regno Unito, la FOPE Jewellery Limited…
“Si tratta di un importante passo avanti nella nostra presenza nel mercato chiave britannico. Eravamo già attivi con degli agenti, ma abbiamo deciso di presidiare direttamente il territorio con la costituzione di questa società che ci garantisce continuità, anche perché abbiamo affidato il 25% della stessa a tre manager inglesi con i quali abbiamo lavorato finora. L’operazione si inquadra nella nostra politica di rapporto diretto con i concessionari del mercato, senza il passaggio da un distributore terzo, e ci consente di migliorare la visibilità del brand e la partnership di business calmierando al contempo i costi operativi. Laddove possibile incentiviamo un “corner” per i nostri gioielli, ci prendiamo insomma cura di tutta la nostra catena di valore dalla materia prima alla vetrina”.
Come avete deciso di quotarvi in Borsa? E’ stato complesso per voi imparare il linguaggio dei mercati? Cosa avete fatto con le risorse reperite?
“La decisione di quotarci in Borsa è nata da un’attenta valutazione delle opzioni di crescita possibili. Va sottolineato che già allora avevamo buoni rating bancari e risorse adeguate, ma volevamo fare qualcosa in più per accrescere la nostra visibilità e intrecciare un dialogo costruttivo con gli investitori. Per questo abbiamo scartato l’ipotesi di un investimento di un private equity nel gruppo che si sarebbe limitato a fornirci solo risorse, volevamo un rapporto con il mercato, così dal dialogo con i potenziali investitori abbiamo avviato il processo di quotazione e reperito 2,2 milioni dall’IPO, 1,2 milioni di euro dall’emissione dei POC (prestiti obbligazionari convertibili) e poco più di mezzo milione dai warrant convertiti lo scorso novembre durante la prima finestra di conversione. Il mio passato da consulente e la struttura stessa della società ci avevano già fornito linee guida di governance adeguate, ma va detto che nel processo di quotazione il team di esperti, in vari ruoli composto da professionisti come IR Top, Integrae SIM, BDO Italia, DLA Paper, Studio Terrin e Crosar Capitalci ha fornito un supporto importante per la nostra crescita. Spunti di rilievo sono giunti anche dagli investitori, come l’introduzione della figura del consigliere indipendente in Cda che abbiamo normato anche in statuto. Oggi quotiamo oltre quota 7 euro dopo un collocamento a 2,9 euro nel 2016, credo di poter dire che il mercato finora abbia apprezzato le nostre scelte. Le risorse reperite? Sono andate in investimenti rivolti direttamente ai nostri principali mercati per accrescere l’awareness del brand e in tecnologia (nel nostro laboratorio abbiamo innovato con i robot, con i processi produttivi e altre tecnologie che puntano a qualità ed efficienza)”.
Come gestite l’approvvigionamento di oro e diamanti e il rischio sui prezzi delle materie prime? Avete subito dei contraccolpi dalla crisi della Banca Popolare di Vicenza poi rilevata da Intesa Sanpaolo?
“Il 70% dei nostri diamanti proviene da un fornitore milanese con il quale abbiamo un rapporto consolidato, l’oro in lingotti viene acquistato dalle banche per un duplice motivo. Il primo è che questo ci consente una certificazione di sostenibilità, siamo infatti membri certificati del Responsible Jewellery Council e abbiamo la certificazione volontaria secondo il sistema TF (Traceability & Fashion).
Il secondo motivo risiede proprio nella possibilità tramite la banca di fare hedging sui prezzi difendendoci dal rischio di volatilità delle commodity. Le crisi della Popolare di Vicenza e di Veneto Banca non hanno avuto impatti sul nostro business, anche perché da sempre abbiamo una situazione patrimoniale solida. A fine 2017 abbiamo una posizione finanziaria netta negativa per 1,17 milioni (in gran parte legata al POC) a fronte di un patrimonio da oltre 11,9 milioni”.
La famiglia Cazzola che controlla il gruppo FOPE ed è alla sua quarta generazione ha ancora diversi rappresentanti nel board del gruppo, lei però dal 2008, dopo una consulenza e l’ingresso nel board su chiamata dei soci, è diventato ad: è un percorso di managerializzazione di un gruppo familiare?
“Sì, l’incontro con FOPE mi ha permesso di conoscere questa realtà e l’affinità di vedute con i soci mi ha portato dentro il gruppo e ha contribuito allo sviluppo del successivo piano industriale del quale abbiamo colto i frutti anche con la successiva quotazione. Il rapporto con il mercato si è infatti consolidato e oggi intravediamo importanti spazi di crescita nei mercati degli Stati Uniti, della Germania e del Regno Unito che sono i più compatibili con i nostri modelli di vendita. Ci ha aiutato anche lo status di PMI Innovativa che ci garantisce importanti vantaggi fiscali. Siamo ormai una multinazionale leggera – abbiamo un organico di 42 persone – ma puntiamo a un rapporto costruttivo con gli investitori istituzionali. Il piano di stock grant che abbiamo varato ci ha posto degli obiettivi importanti sul 2020 che contiamo di raggiungere”.