VAR

Come misurare il rischio di un investimento finanziario



FTA Online News, Milano, 01 Ott 2013 - 16:25

La necessità di misurare il rischio degli investimenti finanziari ha portato nel tempo alla creazione di diversi modelli di valore a rischio (Value at Risk o VAR) che puntano a calcolare la massima perdita potenziale delle posizioni prese sul mercato. Il VAR è in particolare una misura probabilistica basata sull’orizzonte temporale (N giorni) e sul livello di confidenza (X) che restituisce l’ammontare del capitale investito rimanente nel caso del verificarsi di un evento negativo possibile. Altre variabili in gioco sono il periodo di riferimento (in genere un giorno, ma configurabile su ogni scadenza) e soprattutto rischio e volatilità.

Per quanto riguarda il rischio, sono almeno sei i tipi più noti individuati dalla dottrina.

Il Delta risk corrisponde alla sensitività rispetto a variazioni nel prezzo di un asset mentre il Gamma risk indica la sensibilità a variazioni del second’ordine nel prezzo di un’attività (o se si preferisce il tasso di variazione del rischio Gamma).

Esiste poi il rischio volatilità, chiamato anche Vega Risk, collegato proprio alla variazione della volatilità di un’attività e infine il rischio Theta, detto anche time decay risk, connesso al trascorrere del tempo.

Vanno infine conteggiati il rischio di correlazione (base risk consistente nella sensibilità a variazioni di prezzo di uno strumento di hedging) e il rischio Rho, che indica la sensibilità a variazioni nel fattore di sconto ed è infatti chiamato anche discount rate risk.

Un altro fondamentale fattore da considerare nella valutazione del Var è la volatilità che indica la variazione percentuale dei prezzi nel tempo ed è in genere definita con il calcolo della varianza dei rendimenti, ossia con la differenza quadratica media tra rendimento e la sua media (s 2). Se si considera W0 l’investimento iniziale e W*α,t il valore dell’investimento nel caso di perdita massima il VAR è pari a:

VAR= W0-W*α,t

Fra i vantaggi del VAR c’è la sua applicabilità a tutte le tipologie di investimento dal mercato azionario a quello obbligazionario, dai derivati alle valute.

Un esempio può fare un po’ di chiarezza. Se il portafoglio, ossia l’insieme degli investimenti iniziali, ha un valore di 100 milioni di euro e un livello di confidenza X del 90%, porre la perdita massima accettabile a 5 milioni con un VAR a 5 giorni, significa attendersi che l’investitore abbia una probabilità del 10% che dopo una settimana lo stesso possa registrare una perdita di 5 milioni di euro, con un VAR dunque di 95 milioni di euro.

Ovviamente esistono formulazioni più raffinate che tengono conto del valore atteso del portafoglio a scadenza e inseriscono dunque rendimenti o cedole entro quel termine.

Per misurare i rischi si ricorre alla loro individuazione e alla loro traduzione in flussi di cassa elementari (correlati ai singoli asset) che saranno dunque attualizzati. Questa trasposizione dovrà però tenere conto del tipo di asset.

Il metodo più semplice e veloce per il calcolo del VAR è detto metodo della varianza-covarianza o approccio parametrico ed è stato diffuso da JP Morgan negli anni Novanta. Questo metodo ipotizza che i rendimenti (perdite o profitti) abbiano una distribuzione normale. Questo implica che, posti in un grafico alle ascisse i rendimenti/perdite potenziali e alle ordinate le rispettive frequenze (ossia il numero di volte in cui si sono verificate le perdite o i guadagni), si ottenga un grafico a campana noto come curva gaussiana. Si tratta di una curva risultante dalla formula.

Dove s 2 è la varianza dei rendimenti rispetto alla media μ (o valore atteso, posto all’esponente nella formula sopra). Come detto prima la varianza dei rendimenti corrisponde alla volatilità che però in questo caso è la volatilità dell’intero portafoglio (così come il rendimento medio). La forma a campana della curva conferma la massima distribuzione di rendimenti registrati in corrispondenza del valore di rendimento pari a zero, ai due lati del picco la curva scende e riduce il numero di distribuzioni rilevate (in realtà il modello di distribuzione dei rendimenti non è proprio una curva gaussiana, ma piuttosto leptocurtica, ossia è una campana più appuntita con le code più pesanti). Nel grafico il VAR corrisponderà dunque a una porzione dell’area complessiva descritta dalla curva di cui sopra. In particolare sarà l’area delimitata in basso da una variazione di rendimento e in alto dalla porzione della curva che congiunge le corrispondenti frequenze. Quest’area dovrà avere una probabilità calibrata pari alla differenza tra il 100% delle probabilità e il livello di confidenza, dunque se quest’ultimo fosse pari al 95% il VAR dovrebbe corrispondere a una probabilità del 5 per cento per l’evento atteso.

Questo modello, assai usato per la sua relativa facilità di applicazione, è stato assai contestato per l’eccessiva semplificazione che implica. Per esempio non sempre i rendimenti seguono una distribuzione normale.

Così sono stati sviluppati approcci diversi, come quello della simulazione storica che genera un modello di distribuzione empirica a partire dalle serie storiche ricavandone poi il VAR in base al livello di confidenza prescelto.

Un approccio diverso consiste nella simulazione Montecarlo. Si tratta di un approccio non parametrico che trae le sue valutazioni da simulazioni sulle reazioni del portafoglio a un elevato numero di scenari possibili.


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